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LA CRITICA

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Michele Smargiassi

Giornalista

 

 

Testo introduttivo all'opera editoriale "Neapolitan Weddings"

di Francesco Cito

2010

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La misura della dismisura

Continuo a chiedermi, anche dopo aver sfogliato insieme a Francesco questo suo irregolare straordinario album di nozze, che cosa sia mai un “matrimonio napoletano”, da quali particolari si riconosca. I riti hanno forse un accento, un dialetto? Certo che sì, ma come lo si vede?

Ugo Pellis, linguista friulano di inizi Novecento, grande ricercatore sul campo, imparò a fotografare per la frustrazione di non riuscire a rendere con le sole parole l’esatta inflessione idiomatica di un gesto, di una posa, di un abbigliamento. Ma Francesco Cito non è un filologo, e neppure in senso stretto un antropologo (benché ogni buon fotografo lo sia inevitabilmente, persino se fa paesaggi). È un reporter di realtà dure e spigolose, anche rischiose, un testimone di mondi terrestri e polverosi, tutto quel che una cerimonia nuziale tradizionale vuole evitare come la peste: essendo invece un pezzo di vita levigata come un ciottolo di fiume, leggera, irreale, anestetica. Che dopo tanta violenza, Afghanistan, Gaza, Iraq, inquadrando le spose radiose e gli sposi orgogliosi, Cito reclamasse il suo riposo del guerriero? No. Se ti fai raccontare come è successo, capisci che non andò così.
Capisci che anche un velo bianco può essere il reperto casuale, ma necessario, di un viaggio in territori oscuri. Il primo di tutti i suoi veli vaporosi, infatti, lo incontrò a Scampia, il paese rovesciato. Scampia, la città senza desideri, dove la convivenza civile paga dazio alla sua stessa disgregazione e lo paga salato, dove c’era una farmacia solo perché la legge dice che doveva esserci (ma scontava il prezzo di quel suo imperativo debole con il rito della rapina serale e la processione delle siringhe notturne), ma non c’era la chiesa, perché perfino la legge di Dio, se non s’adatta, viene rifiutata là dove altre leggi imperano. Ce Lo portava in macchina, Dio, un prete spericolato, don Benito Ricciardiello: Gli faceva fare un giro sulla sua 850, ogni tanto si fermava a bordo strada e Gli apparecchiava l’altare sul cofano motore. Per navata un parcheggio. Pochi oranti, c’erano in quelle soste, e un fotografo: Francesco. Che volle esserci anche quel giorno speciale, quando il Dio nomade delle piazzole prese finalmente casa in un prefabbricato, e don Benito celebrò le prime nozze di Scampia. La trovate, quella foto, se correte avanti con le pagine. Ma aspettate un attimo: era ancora troppo presto perché quell’episodio germinasse lo spunto per un progetto. Quelle nozze in mezzo al nulla erano ancora soltanto la testimonianza di una contraddizione nelle pieghe di una socialità malata. Guardate, questa è Scampia: ci si sposa, anche. Ma le immagini fisse non sono mai così fisse. Lavorano nel retrobottega mentale di un fotografo, e se hanno una buona voce, prima o poi reclamano i loro diritti. Lentamente, quell’anche sgomitò per salire di grado, diventare una domanda: come, perché? Perché sposarsi è ancora un rito, perfino nel deserto sociale di Secondigliano, e come è possibile?
Girando per le strade della sua Napoli, passeggiando in piazza Plebiscito, prendendo un caffè al Borgo Marinaro, Francesco cominciò allora a vederli, gli sposi radiosi, e poi a guardarli. Fatevelo raccontare da lui stesso. Pupazzi felici e docili nelle mani del fotografo burattinaio, comprimari ubbidienti e sfiniti di un copione di cui avrebbero dovuto essere i protagonisti, se non gli autori.

No, l’unico autore del copione “oggi sposi” è l’uomo dello scatto. Ma allora la domanda diventa: perché sposarsi, oggi, è per forza e soltanto sposarsi davanti all’unico vero celebrante, il fotografo? “Vi dichiaro negativo e positivo”... Ma in questo modo, è ancora lo stesso sposarsi? Rito, lo era anche prima, lo è da secoli. E ogni rito è principalmente visione e condivisione, è teatro, recita, copione di una commedia di gruppo, corale e sociale, dove attori e comparse sanno a memoria la parte senza averla studiata, perché l’hanno assorbita pian piano, fin da piccoli. Però, da quando c’è di mezzo quell’imbuto ottico e meccanico, è come se tutto lo scenario della pièce dal titolo “il giorno più bello” venisse improvvisamente risucchiato in un unico punto, il bottone nero e vitreo dell’obiettivo. Come se il palcoscenico dell’altare divenisse, di colpo, un piano inclinato, la conca di un lavandino che inghiotte sorrisi e gesti e pose e abiti strizzandoli nel tubo di scarico di un’immagine.
Quel che Cito si mise in mente, ormai un quindicennio or sono, non era raccontare i matrimoni, ma i matrimoni fotografati. Antropologo, se volete, ma non di un rito sociale e familiare, bensì di un rito della rappresentazione, della costruzione iconica del’Io, anzi del Noi di coppia. Non gli restava che trovare la tribù iconogenica che si prestasse meglio alla sua indagine. Napoletano trapiantato a Milano, provò prima con la sua città adottiva: fallimento. Noia di una commedia borghese, prevedibile e ordinata come fosse la firma di un rogito dal notaio. Ribaltò la cartina d’Italia e provò con la Sicilia: colori e festa, sì, ne trovò in abbondanza, ma immersi in un eccesso di esteriorità, velo brillante ma senza spessore. Napoli. Alla fine tornare a casa fu la soluzione più facile. Forse per la sintonia inconscia, automatica e giusta con comportamenti sentimenti espressioni gesti appresi fin da bambino, che a lui rendeva ogni minima frazione di quel rito evidente a prima vista, leggibile senza fatica, lasciandogli il tempo di lavorare oltre.

Napoli, perché sposarsi qui non è solo folclore ed esibizione. Non è solo un giorno speciale nella vita, intesa come la vita vera. Tutto il contrario. È la sospensione dell’ordinario, il trasferimento temporaneo ma radicale di un’intera comunità parentale, amicale, sociale, in un’altra dimensione, senza più alcun rapporto con l’esistenza ordinaria di tutti. È un rituale della tribù, sciamanico, perfino psichedelico, un’ebbrezza di gruppo teatralmente indotta, limitata nel tempo ma sfrenata nell’intensità. Il matrimonio napoletano, si può dire senza esagerare, non è di questo mondo: ma di un altro mondo paradossale, che ha con quello reale lo stesso rapporto che il sogno ha con la veglia. Non è neppure, attenzione, un carnevale, un rovesciamento speculare della società e delle sue relazioni: non ha proprio alcun rapporto, neppure di contraddizione o di cobtestazione, con queste cosucce concrete. La prova è che a Napoli le cerimonie nuziali non sono quasi mai una nomenclatura di classe, neppure di una classe che cerca di fingersi più ricca di quel che è. Forse solo il matrimonio borghese, da queste parti, è riconoscibile per una certa moderazione, la vergogna di strafare, che li rende una specie di sonno vigile, trattenuto, un dormiveglia. Ma distinguere, a vista, tra nozze artistocratiche, popolane e di camorra, a Napoli è impossibile.
Quella sposa avvolta in nimbi di sete e tulle che vedete sbarcare dalla Rolls davanti alla scalinata della chiesa può esserci salita, un quarto d’ora prima, uscendo da una lussuosa villa di Posillipo come da un bilocale di un vicolo del rione Sanità, indifferentemente (è vera la seconda che ho detto). Ma la troupe del fotografo scritturato non permetterà ad alcun indizio di realtà di intrufolarsi nella perfezione dell’inquadratura. Lo fa Cito. Ma senza alcuna ferocia satirica, o desiderio di dissacrazione. Troppo facile verrebbe l’ironia all’occhio smaliziato, il sarcasmo del dietro-le-quinte, la presa in giro della cinecittà di cartone sfrenata e impudica, i centurioni in costume, le damigelle settecentesche, gli strascichi chilometrici, le pose enfatiche e gridate, da sceneggiata. Troppo facile e fuori bersaglio, perché non c’è nessuno che venga davvero ingannato: tutti già lo sanno, dagli sposi all’ultimo invitato, che si tratta per l’appunto di questo, di una gigantesca finzione che tanto più riesce quanto più è coscientemente esagerata e paradossale; e non ci trovano nulla di sbagliato, anzi: così dev’essere. La dismisura, cosciente e rivendicata: ecco cos’è il matrimonio napoletano. E la dismisura non teme che nessuno la smascheri, perché è già una maschera orgogliosa di esserlo.

Come Cito stesso vi racconta, Oreste Pipolo, il re dei fotografi di matrimonio partenopei, accettò di buon grado la sua presenza in mezzo ai parafernalia maestosi e spesso ridondanti della sua grande macchina: fari, “ombrelli”, paraluce, diffusori, eccetera. Gli diventò amico, gli spiegò i segreti del mestiere. Non lo sentiva concorrente, ovvio, ma neppure pericoloso intruso, semplicemente un collega che fa altre cose. Uno che fa soltanto fotografie: be’, affari suoi. Perché la funzione del fotografo di matrimoni non è davvero fare fotografie, e forse non lo è affatto. Anche se alla fine un album di fotografie ovviamente verrà prodotto, magari dopo alcuni mesi, quasi nessuno, dopo la prima eccitata sfogliatura, lo guarderà più: come il vestito bianco finirà in qualche armadio, cenere dorata di un lusso non più ripetibile, non riutilizzabile. La funzione di quell’album è di essere una specie di caveau dell’apparenza ostentata e pagata, un muto e puro deposito di valore trascorso e già speso; non un oggetto visuale, ma la concrezione materiale di un’esibizione effimera.
La vera funzione del fotografo ufficiale è semplicemente essere lì, quel giorno, in assetto altrettanto appariscente e vistoso dei suoi clienti, parte integrante della scena e non osservatore distaccato e tecnico. Potrebbero anche non esserci pellicole o schede di memoria nelle sue fotocamere: quel che conta è la sua visibile presenza, la sua attiva presenza che attraverso un sapiente uso di gesti, oggetti e comandi dà forma e regole alla dismisura, e poi la conserva, ché altrimenti rischierebbe di svanire nel nulla come un fuoco d’artificio a Piedigrotta. Che grande invenzione, la fotografia: è il frigorifero dell’ego sociale.
Cito non è questo, e non era lì per questo. Ma neppure per rovesciare con il sarcasmo lo schema. Troppo banale, troppo scontata la caricatura di quel che è già caricato fino al parossismo. Dunque quel che avete fra le mani non è un catalogo del kitsch matrimoniale svelato e messo alla berlina. Proprio per niente. È forse, quasi, un’operazione semiologica. Raffinata, molto raffinata, eppure divertente e leggera. Cito affronta una “struttura”, possente, coerente, collaudata, funzionante: il moderno matrimonio foto-genico nella sua fenomenologia più completa e pura. E la de-struttura con il medesimo strumento che l’ha costruita: una fotocamera.

Destrutturare, insistiamo ancora, non significa smascherare o deridere. Significa entrare nel profondo della struttura per comprenderla e smontarla con cura, con i guanti e il monocolo all’occhio, come si fa con il meccanismo di un orologio di cui, da fuori, si vedrebbe solo l’ostentato ticchettio e il circuito delle lancette. Il reportage “laterale” di Cito (non un “contro-reportage”) s’intrufola fra gli ingranaggi, li osserva, a volte ne ammira perfino il sapiente preciso movimento, e per capirlo meglio lo segue, lo imita, lo plagia, lo esaspera, lo fa ridondante, ci gioca, ne escono fotografie che potrebbero anche stare in quegli album sontuosi; altre volte invece toglie una vite, sposta una rotella per vedere meglio, cambia punto di vista, smonta, isola il dettaglio e lo amplifica come sotto il monocolo, per vederlo meglio; altre volte ancora allarga l’inquadratura per comprendervi il fuori-scena, il casuale, l’imperfetto, il contorno ordinario e magari squallido, l’aneddoto sorridente, insomma quell’impensabile impaccio prosaico che chiamiamo il mondo reale. E poi alla fine rimonta tutto, in un ordine diverso, per capire se l’ingranaggio funziona lo stesso, oppure dove s’inceppa. Ecco, forse ho capito questo, alla fin fine: che Cito questa volta non fa davvero l’antropologo, ma neppure davvero il reporter, anche se coi suoi Neapolitan Weddings ci ha vinto il Word Press Photo. Fa l’orologiaio. Rimette in punto le immagini.
Taccuino e penna stilografica

La visione di Michele Smargiassi

<  Cito affronta una “struttura”, possente, coerente, collaudata, funzionante: il moderno matrimonio foto-genico nella sua fenomenologia più completa e pura.

E la de-struttura con il medesimo strumento che l’ha costruita: una fotocamera.  >

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